Presenza equilibrata e principio del non voler possedere

Presenza equilibrata e principio del non voler possedere

In occidente il concetto di “non voler possedere” viene spesso affiancato al concetto di rinuncia consapevole a qualcosa che ci piace, che vorremmo fare nostro o che vorremmo mantenere in nostro possesso.

Al contrario, in oriente, questa espressione assume un significato più profondo e liberatorio, ovvero: liberare il pensiero dall’idea (malsana) che sia possibile (davvero) possedere qualcosa.
Ciò non significa, rinunciare a tutto. Dobbiamo vivere su questa terra e dobbiamo farlo secondo le regole di una società che, in parte, ci obbliga a utilizzare degli “strumenti di lavoro”.
Quello che però possiamo allenarci a fare, è utilizzare tutto ciò che ci serve senza pensare che sia di nostra proprietà, che sia nostro per volere divino o per un qualsivoglia diritto acquisito.

Chi si trova nello stato di non voler possedere qualcosa, non ne soffrirà per la perdita. Questo vale per gli oggetti, per le situazioni e anche per gli affetti.

La smania di possesso è un sentimento umano, talmente umano che ci distingue da tutti gli altri esseri presenti sulla terra. Un leone non penserebbe neppure lontanamente alla possibilità di uccidere dieci zebre in più del dovuto per rivenderle o trarne beneficio. Il leone, come gli altri animali, vive nel presente, non è insita in lui la bramosia di possedere qualcosa.

Il principio del non voler possedere ci insegna che è proprio la cupidigia e la spasmodica smania di possesso a renderci spesso tristi, vulnerabili, prevedibili e, perché no, ricattabili.

Il principio del non voler possedere non ci dice che dobbiamo rinunciare alle cose. Vivere secondo il principio significa accettare le cose per come sono, senza augurarsi che siano diverse. Accettare sia ciò che viene, sia ciò che va, tanto le vittorie quanto le sconfitte.

Il principio del non voler possedere ci insegna inoltre a fare le cose perché vogliamo farle, non perché riceveremo qualcosa in cambio.

Aneddoto del generale e del monaco

Si narra la storia di un generale scortato dai suoi soldati, che un bel giorno si imbatté in un monaco assorto nella sua meditazione che, seduto in mezzo alla strada, gli bloccava la via.
Il generale furibondo, alla vista del monaco, urlo: “Ehi monaco! Togliti di mezzo! Fammi passare!”

Il monaco, impassibile, rimase seduto senza rispondere. Al che il generale, sempre più arrabbiato, tuonò: “Sei sordo? Non hai sentito? Ti ho detto di alzarti e farmi passare” e poi, sempre più minaccioso, urlò: “Credo che tu non sappia chi hai di fronte. Davanti a te c’è qualcuno che potrebbe ucciderti in qualunque momento, senza battere ciglio”.

A quel punto il monaco alzò la testa, aprì gli occhi e rispose: “Credo che tu non sappia chi hai di fronte. Davanti a te c’è qualcuno che potrebbe morire in qualunque momento, senza batter ciglio!”.

Questo aneddoto vuol farci capire che nemmeno l’avversario più forte può esercitare potere su colui che non ha nulla da perdere.

La ricerca esagerata di attenzione crea sofferenza

Molto spesso, al giorno d’oggi, notiamo come le persone dubitino di se stesse e del loro valore se non vengono cercate ogni cinque minuti via SMS, Whatsapp, e-mail, social network, al telefono o di persona. Addirittura qualcuno non riesce più a vivere senza un riscontro positivo da parte degli altri (sia in ambito lavorativo, che personale).

Cerchiamo “fuori” qualcosa che dovremmo trovare “dentro” di noi. Cerchiamo negli altri una risposta al senso di vuoto, quando solo noi siamo in grado di colmare questa mancanza e non comprendiamo che la brama di attenzione e affetto può diventare un’arma pericolosa nelle mani sbagliate.

Le persone vengono manipolate da coloro che le ammirano e che simulano quell’attenzione nei loro confronti che tanto cercano e che tanto desiderano per placare il senso di inadeguatezza. Non si rendono conto, invece, di essere sfruttate e, a lungo andare, finiscono per stare ancora più male.

Parallelo marziale: Wu Wei

Una storia zen narra di un vecchio saggio che doveva essere portato a corte, all’attenzione dell’Imperatore. Per cercarlo furono mandati dei soldati che, arrivati al suo villaggio, scoprirono che il vecchio si trovava presso le vicine cascate. Arrivati lì lo videro buttarsi nell’acqua sottostante. Vista l’altezza del salto, le guardie pensarono che l’uomo fosse morto ma, pochi istanti dopo, lo videro riemergere sulla riva.
I soldati rivolgendosi al vecchio dissero: “Pensavamo fossi morto. Come hai fatto a sopravvivere a un tuffo del genere?”. L’uomo rispose: “Oh, una sciocchezza. Invece di oppormi all’acqua mi sono trasformato in essa. Quando mi tirava giù, scendevo. Quando mi sollevava, mi alzavo e così mi sono mosso nell’acqua come una foglia al vento”.

Wu Wei (in giapponese: 無為, in cinese: 無爲) è un precetto del Taoismo che riguarda la consapevolezza del quando sia utile agire e del quando non agire.

Praticare il Wu Wei significa raggiungere un dato scopo non semplicemente col minimo impegno, ma attraverso il non-impegno o meglio, lasciando che tutto succeda “naturalmente”, che tutto fluisca. Significa inoltre accettazione serena di tutto come un dono, non di possesso. Facendo ciò ci liberiamo dalla frustrazione che nasce dalla perdita.

L’obiettivo del Wu Wei è quello di mantenere gli esseri umani in armonia con la natura, affinché il mondo segua la sua naturale evoluzione e noi si sia felici. Per fare questo non si deve ambire ad azioni troppo eclatanti o troppo complesse.

Di questo e di altro parliamo nel percorso “Arti Marziali per la Vita Quotidiana“. Clicca qui e scarica l’estratto del primo modulo del corso.